Economia globale ed economia locale… Alcuni estratti dalla mia tesi, in attesa di pubblicazione

Esistono tre tipologie di approccio, quando si parla di progetto sul territorio, distinguibili sulla base della percezione di quest’ultimo, in confronto al mondo globale. Si tratta di tre possibili strade per analizzare un territorio e per intervenire su di esso, descritte da Alberto Magnaghi all’interno del suo recente volume “Il progetto locale”, edito da Bollati Boringhieri in un’edizione aggiornata, nel 2010.

Il primo approccio, denominato top down o approccio funzionale alla globalizzazione economica, prevede che un’area economica, sia essa città o regione, si posizioni sul mercato globale sfruttando alcune risorse locali forti e competitive. Si tratta, dunque, di un approccio che prevede il massimo sfruttamento del territorio per posizionare un prodotto all’interno di un mercato o di una rete di mercati in concorrenza fra loro, ovvero all’interno del mercato globalizzato. Lo sviluppo locale viene percepito come “aumento della competitività locale nel sistema economico globale”, come sfruttamento ad esaurimento del territorio, che, una volta privato delle sue risorse, viene prontamente sostituito.

Il secondo approccio, denominato “glocale” sostiene la ricerca di un equilibrio fra il bisogno di valorizzare le caratteristiche locali, in modo da garantire la qualità del prodotto, e la differenziazione competitiva delle merci sul mercato. In altri termini, significa che solo le realtà locali che possiedono un prodotto spendibile sul mercato globale, possono accedere a questa tipologia di sistema e alle cosiddette “reti lunghe” del globale. E solo le realtà che riescono a prendervi parte, possono garantire un rinnovamento nell’uso del proprio patrimonio territoriale come risorsa.

La prima conseguenza logica appare, dunque, la selezione, ancora una volta operata dal mercato, delle varie realtà territoriali e, in particolare, la non capacità a rivalorizzare continuamente il patrimonio territoriale per tutte quelle realtà che non rientrano nel sistema glocalistico. L’ulteriore rischio di tale teoria è che i sistemi locali non riescano a mantenere le loro caratteristiche peculiari, una volta entrati nel mercato globale, in quanto, non essendo associate fra loro, ma costituendo dei singoli, solitari di fronte al mondo globale, si riducano per adattarvisi e per  utilizzare le sue regole.[1]

La terza e ultima tipologia di sviluppo locale viene definita approccio bottom up o globalizzazione dal basso e consiste nel cercare stili di sviluppo alternativi al processo della globalizzazione, puntando sul territorio in qualità di patrimonio, e cercando di attivare relazioni mutue, non gerarchiche ma cooperative tra territori, siano essi città o regioni. L’elemento basilare è la costruzione dal basso di tali sistemi relazionali, ovvero dai cittadini e dai lavoratori di ogni territorio; per questa ragione, tale sistema di sviluppo locale tende a valorizzare i valori culturali, sociali, produttivi, ambientali e artistici locali. Secondo Magnaghi, inoltre, questo tipo di valorizzazione del patrimonio, pone le basi per una consapevolezza maggiore della ricchezza dei luoghi e per la salvaguardia di essi, sia da un punto di vista ambientale, sia dal punto di vista della cura territoriale, sociale e politica.

“La costruzione di un patto socialmente esteso per la valorizzazione del patrimonio territoriale come base materiale per la produzione della ricchezza costituisce le garanzie della salvaguardia ambientale (sostenibilità ambientale) e della qualità territoriale (sostenibilità territoriale), dal momento che nella costruzione stessa del progetto si determinano le condizioni solidali e di fiducia per la difesa e la valorizzazione del bene comune condiviso; ma solo la presenza nel patto dei bisogni degli attori più deboli, garantisce la sostenibilità sociale, pena lo sfruttamento (e la distruzione) delle risorse umane e materiali nella competizione sul mercato da parte degli attori forti. Lo sviluppo locale così inteso induce il superamento di norme e vincoli esogeni verso regole di autogoverno concertate e sorrette da un senso comune condiviso (sostenibilità politica)”. (Magnaghi, 2010, p. 95)

 

Voi cosa ne pensate?


[1]          “Pur essendo fondamentale l’affermazione che il locale che non si connette rischia di non essere in grado di produrre processi di rivalorizzazione del proprio patrimonio, il rischio presente in questo approccio sta nel sottovalutare il fatto che, attualmente, la relazione fra locale e globale è una relazione fortemente squilibrata a favore del globale (in particolare delle reti lunghe del capitale finanziario), che fissa parametri, regole, vincoli, tecnologie, modelli generali di sviluppo. Il rischio della teoria glocalista è che il locale sia «irretito» dalle reti lunghe del globale, poiché ogni locale si trova solo nella competizione, e che riesca a inserirsi in essa solo adeguandosi alle regole di sviluppo date.” (Magnaghi, 2010, p. 94)

 

E l’ambiente? Introduzione al tema

E l’ambiente?

Domanda interessante, che mi è stata posta da un gentile follower, che ringrazio. Mi offre la possibilità di parlare di un tema che mi è molto caro. Spesso abusato. Spesso utilizzato per fini politici. Spesso dunque usato in modo improprio.

Cos’è l’ambiente? Domanda semplice. Tutti noi siamo in grado di rispondere. E’ quello che ci circonda. Il nostro mondo. Il nostro habitat naturale. La condizione sine qua non la vita esiste.

Quello che appare complicato non è il cosa, ma il come. Quindi:

Come gestire l’ambiente, in modo degno della sua importanza?

Oggi, la maggior parte delle politiche territoriali si “diverte” a mettere gli alberini agli angoli delle strade, spacciandoli per standard urbanistici. Affermando di aver fatto il suo dovere nei confronti dell’ambiente o della popolazione. Oppure, ancora peggio, si vendono porzioni enormi di terreno a privati, esterni al territorio, per costruire centrali a biomassa. La domanda che ci dobbiamo porre come cittadini, in primo luogo, e come urbanisti e pianificatori, in secondo luogo, è la seguente:

A chi serve l’energia di questi campi alberati? A chi vanno i proventi? A chi giova? All’ambiente o a qualche privato? Al comune o ad agenti esterni?

Certamente è sempre positivo piantare alberi, perché purificano l’aria. Arricchiscono il suolo, lo rendono più stabile. Rendono il paesaggio più bello. Ma non è questo rispettare l’ambiente, a mio parere. Non è solo questo.

Rendiamoci conto di un fatto semplice: quando si distrugge l’habitat di un animale, questo muore. Ricordiamoci che noi siamo animali e il nostro habitat è un ambiente. Ci stiamo auto distruggendo! Ma veniamo a noi. A proposte concrete. Lasciamo stare la polemica fine a se stessa e proviamo di dare una risposta, seppur sommaria.

Economia locale. Alberto Magnaghi. Attingendo a piene mani dalle sue teorie, e sintetizzandole con altri studi, in particolar modo con un articolo di Wendell Berry, ritengo che una delle migliori risposte che si possano dare è ritornare ad una economia locale, per i beni primari. Intendiamo bene che dico per i beni primari: nutrirsi e avere una casa.

Perché questo? Molto semplicemente poiché in questo modo si ricrea un cerchio di produzione, di lavoro e di consumo che ruota attorno ad un dato territorio e da esso si alimenta.

Si produrranno beni propri di quel territorio. Si venderanno su quel territorio. Si creerà lavoro su quel territorio. Non ci sarà bisogno di trasportare i beni principali, da altri territori. Si realizzerà il sostentamento della popolazione da tutti i punti di vista (economico, lavorativo) e, allo stesso tempo, si rispetterà il territorio non sovraccaricandolo di inquinamento da trasporto inutile. E’ ovvio che non tutti i territori possono produrre la totalità dei beni che gli necessitano e in quel caso il ricorso al trasporto è da utilizzare. Non siamo contro la modernità. Ma modernità non vuol dire nemmeno non sense.

La proposta è evitare l’inutile inquinamento e l’inutile ricorso a prodotti lontani, quando si possono produrre a casa propria!!!

ACQUA: RIFLESSO DI CULTURA

Mostra internazionale a Comacchio presso la Manifattura Marinati

Una risorsa scarsa. Sempre più difficile da gestire. L’acqua. Sostiene la vita. Ma è anche straordinaria potenzialità per chi la possiede. Non solo un bene primario per l’alimentazione, ma elemento capace di rendere un territorio più attrattivo al turismo. O più bello da vivere.

 Quanto è bella una città attraversata da un fiume? Una città che si affaccia sul mare?

 Ecco perché a Comacchio si inaugura oggi la mostra conclusiva del Seminario Internazionale Acqua come patrimonio. Un evento europeo che ha coinvolto numerose università nel mondo. Ferrara. Bucarest. Lille. Coimbra. Sant-Louis du Sénegal. Tutti si sono incontrati nel corso dell’anno, per collaborare alla realizzazione di progetti di riqualificazione delle città d’acqua e dei paesaggi fluviali.

 Una straordinaria esperienza di collaborazione interculturale, che ha reso studenti e docenti più consapevoli del ruolo dell’acqua nel mondo: un riflesso della cultura dei popoli, nella sua utilizzazione e valorizzazione.

 Hanno coordinato l’esperienza l’Ente di gestione per i parchi e la biodiversità del Delta del Po e il Laboratorio Citer dell’Università di Architettura di Ferrara. Due enti da sempre attenti alle tematiche della riqualificazione urbanistica ecologica e sociale.

 I progetti non trattano solo la valorizzazione turistica dei territori, ma attuano una politica di recupero dei tessuti urbani degradati, nell’ottica di creare una nuova joie de vivre per la cittadinanza. Il bene dei cittadini è obiettivo principale di un’urbanistica moderna.

Una mostra da non perdere a Comacchio, presso la Manifattura Marinati, in Corso Mazzini 200. Prendetevi la giornata libera e sfruttate l’occasione per visitare la magnifica città, con i suoi canali, i ponti, le valli, i colori e gli abitanti. Un consiglio: osservate la curiosa disposizione delle abitazioni sui canali e all’interno.

Tu uomo che corri

Tu uomo che corri incontro al traguardo e alzi gli occhi al cielo felice di essere arrivato all’obiettivo. Stanco. Sudato. Con quella sensazione di avercela fatta. Alza gli occhi al cielo e guarda il fumo bianco in mezzo alla folla. Urla la tua disperazione.

Tu uomo che corri per aiutare chi è caduto a terra. In un istante capisci che non importa chi arriva ma importa chi si risolleva. Urla la tua rabbia.

Tu bambino che corri incontro a tuo padre. Urla la tua voglia di vivere.

Tu uomo che corri incontro alla morte. In guerra. Malato. Abbandonato. Vecchio. Urla il tuo coraggio.

Tu uomo che corri a casa la sera parlando al telefono. Arrabbiato. Stanco. Innervosito. Urla l’amore per tua moglie.

Tu uomo che corri pensando alla crisi. A come fare la spesa. A come pagari i libri per la scuola. Urla l’amore per i tuoi figli.

Tu uomo che corri per governare il paese. Urla il bisogno di migliorare il mondo per il popolo.

Tu popolo che corri pensando a te stesso. Urla giustizia.

Tu uomo che vuoi uccidere gli altri. Che pensi di mettere una bomba in una giornata di festa. Urla il tuo bisogno di aiuto. Urla prima di agire. Urla perchè non è la giusta soluzione. Urla perchè anche se pensi di essere solo, qualcuno ti risponde.

Tu uomo che corri senza credere in nulla. Urla il tuo bisogno di fede. Urla a Dio la tua richiesta di un segno. Urla allo stato il tuo bisogno di giustizia.

Tu uomo che corri tutti i giorni per scrivere nei giornali. Urla con una voce libera.

Tu uomo che corri.

 

Tu uomo che corri.

 

Urla.

 

Urla.

Urla

 

Io uomo, donna, bambino che corre.

Stasera mi fermo.

 

In silenzio.

 

 

A chi è morto. A chi è sopravvissuto. A chi c’era. A chi non c’era.

A tutti coloro che hanno vissuto la Maratona di Boston, l’11 Settembre, i Genocidi, le stragi, le guerre.

 

Pensieri di una panchina…

La gente passa e non osserva. Guarda distrattamente le vetrine. Si ferma al bar. Se non ci sono avvenimenti inusuali passa e va. Ma c’è una persona, anonima, vestita in modo anonimo, in silenzio, che nessuno vede.

Lei osserva.

E’ seduta su una panchina e il suo sguardo si sofferma qualche minuto su alcuni oggetti. Un bidone della spazzatura -guarda che roba ha anche un portacenere incorporato!-, un uccellino che porta via un rametto, una vetrina da cui non si capisce cosa contenga il negozio -che spreco!-.

La gente.

I palazzi.

I palazzi che stranezza! Nessuno li osserva, ma questa persona si, perchè si chiede in un secondo: come fanno a stare in piedi? Ma chissà che cosa c’è dentro? Ma guarda che strano quel rivestimento! Ma secondo me non è mica “a norma”!

Ebbene si quella persona è un architetto. Un elemento urbano assolutamente anonimo e insulso che osserva e pensa. Forse troppo. Anzi, di sicuro troppo.

Perchè l’architettura? Che domanda! Se esistesse una risposta, l’architettura non esisterebbe. E’ “solo” una ricerca di se stessi, del proprio inconscio all’interno di un mondo che si dimentica di osservare e di pensare. Di un mondo che va troppo di fretta per accorgersi delle persone. Di un mondo che va troppo di fretta per pensare a se stesso.

Perchè scrivere? Perchè un architetto deve farlo. Forse più scrivere che disegnare! Perchè scrivendo cerca di trasmettere a se stesso qualcosa. Perchè scrivere ti fa sentire vivo, in un mondo fatto di pietre.

BASTA COSTRUIRE AD OCCHI CHIUSI!

A San Pietro in Casale l’Associazione Amici del Metrobosco si mobilita.

 

 “Un grande bosco e un grande parco che circondano il paese per una profondità di almeno 500 metri, un anello all’interno del quale non si possano costruire case, condomini o qualunque altra cosa”. Questo il programma urbanistico che l’Associazione Amici del Metrobosco propone per il miglioramento della qualità della vita a San Pietro in Casale.

L’Associazione nasce da un gruppo di cittadini, stanchi di vedere costruzioni che erodono la campagna e il paesaggio: principale patrimonio e fortuna demografica del comune. Joie de vivre, qualità architettonica, rapporto con la natura, sono alcune delle parole chiave della proposta avanzata e portata avanti, fin dal 2012, dal presidente e dagli associati. In collaborazione con il laboratorio di urbanistica Citer della Facoltà di Architettura di Ferrara, i cittadini hanno realizzato un Workshop e numerose tesi di laurea, culminate con la realizzazione di una mostra presso l’Urban Center di Bologna. L’obiettivo è far riflettere la cittadinanza e l’amministrazione sull’esistenza di strade alternative alla creazione di sempre nuovi edifici, ricorrendo ad esempio alla densificazione del centro storico. Per rendere il messaggio più concreto, si avanza la proposta di creare un bosco metropolitano che circondi e attraversi il tessuto urbano: un Metrobosco, ospitante funzioni per la cittadinanza, dallo sport alla creazione di giardini botanici, alla gestione moderna dei rifiuti. Dopo un 2012 intenso di lavori, l’associazione si concede un breve periodo di riflessione, in attesa della conclusione di alcune tesi di laurea e della loro valutazione accademica. Un’idea rimane impressa: i cittadini sono stanchi di essere pedine passive di fronte alle scelte urbanistiche delle amministrazioni e si muovono per cambiare, in meglio, la propria città.

Il miglioramento della città parte anche e, forse oggi soprattutto, dal basso, dai cittadini, da coloro che pagano le tasse e vedono il proprio territorio deturpato da pratiche edilizie corrosive.

Attendiamo passivamente che siano le amministrazioni a muoversi o facciamo sentire la nostra voce?

Per maggiori informazioni sull’Associazione consultate il loro sito http://www.amicidelmetrobosco.it

Perché artigianato, perché città, perché artigianato e città…

Da un anno ad oggi ho cominciato a studiare il tema dell’artigianato e della città, leggendo, informandomi, studiando, partecipando attivamente. Il lavoro è esploso all’interno della mia tesi di laurea in Architettura. Ma quando nasce un amore, non lo si può abbandonare e questa ricerca è diventata ormai quotidiana. Vi racconto dove questo “amore” è iniziato….

E’ sicuramente capitato a tutti di camminare per le strade delle città e di rendersi conto di quanto stiano diventando prive di quella vitalità che le aveva caratterizzate nel tempo. Perché questo avviene? Spesso noi, comuni cittadini, non ce lo chiediamo, e forse, non siamo nemmeno in grado di rispondere.

E se fosse per la perdita delle botteghe storiche, dei negozi di alimentari, dei sarti, dei falegnami, dei fabbri…?

Se osserviamo davvero quello che succede intorno a noi possiamo notare come le grandi città si trasformano in “gallerie commerciali” all’aperto, con grandi catene di abbigliamento o di telefonia o di ristorazione. Mentre nelle piccole città i commerci tendono a chiudere, in favore dell’apertura di grandi hub commerciali periferici. I nostri borghi tendono a trasformarsi in “città dormitorio”: pochi servizi, pochissimi o nulli posti di lavoro, insomma luoghi in cui si torna la sera per dormire.

Cosa facciamo qui dunque? Cerchiamo di discutere e di capire come questo fenomeno avviene e soprattutto cerchiamo di dare suggestioni e proposte per risolvere il problema.

Perché, dunque, l’artigiano? Perché secondo me e diversi studiosi (di cui presenteremo le opere successivamente) si tratta di un tipo di lavoro capace di apportare valori positivi alla società. L’artigiano è colui che sintetizza realtà e tradizione per risolvere problemi innovativi. L’artigiano è un artista. L’artigiano è un insegnante. L’artigianato nobilita il lavoro dell’uomo.

Perché la città? Perché è il luogo in cui viviamo e di cui dobbiamo prenderci cura.

In conclusione? Riflessioni sul tema, sviluppo delle ricerche, ma anche interviste con gli artigiani, e interventi di studiosi, recensioni di libri e articoli  per cercare di “sviscerare” l’argomento il più possibile.